Vallo di Diano: Nessun dorma, lettera aperta di Eppe Argentino Mileto

NESSUN DORMA 
Manifesto verso l’Ospedale diffuso “La città del sole” 
Lettera aperta ai cittadini del Vallo di Diano e Tanagro attraverso i Sindaci 

di Eppe Argentino Mileto 

Non c’è nulla di più ostico all’uomo della strada che conduce a se stessi. Ma allora, è possibile la felicità? Cosa significa? Quanto costa? Si misura in chilometri, in once, libbre, ettari, acri, oppure si misura al chilo? Si pesa o si conta? Cosa è? E quanta ne occorre? E’ uno stato dell’anima, un moto interiore, uno slancio, un salto d’altalena, uno sbatter d’ali, il frullo di un passero, o cos’altro? Penso sia la capacità di partorire un’idea. Di avercela, un’idea.
Di nutrirla, allevarla, insegnarle a camminare, a parlare, ad attraversare la strada. Di difenderla, ad ogni costo. Anche a costo di morire in suo nome. Di essere lapidati in suo nome. Insultati e crocifissi e vilipesi e torturati e oltraggiati e offesi e massacrati. La capacità di irrobustirne le membra, di allungarne le ossa, di espanderne la mente. La voglia di volare. E’ un lamento profetico, la felicità. Talvolta un urlo liberatorio, la pace ritrovata dopo uno sfogo di lacrime. E’ possibile, in nome di un’idea, costruire una città sicura, naufragare su un’isola ignota e vergine, sconosciuta alle mappe, che sfugge al controllo di ogni radar, sentirsi cittadini di uno Stato felice? La risposta è sì. Sento, improcrastinabile, la necessità di scrivere agli abitanti del Vallo di Diano e Tanagro, all’indomani dei numerosi articoli che la stampa ha dedicato al progetto di Ospedale diffuso che sta nascendo lungo le stazioni ferroviarie in disuso, fra Sicignano degli Alburni e Lagonegro, grazie alla fiducia riposta da parte di Rete Ferroviaria Italiana, del Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane. Un grazie particolare giunga al Vescovo della Diocesi di Teggiano-Policastro, S.E. Mons. Antonio De Luca. Le sue parole e il suo sostegno sono stati il nutrimento di questa iniziativa. I miei ringraziamenti giungano ai Sindaci e alle Giunte Comunali, che hanno creduto in questa idea, che ha il sapore di una promessa, di un patto con il territorio, di un progetto ampio che coinvolge le popolazioni, di un stretta di mano convinta, di una parola data. I Sindaci mi emozionano, quasi mi commuovono. Tutti. Perché sono i primi cittadini. Sapete cosa significa essere i primi cittadini? Sono i latori dei nostri pensieri, gli architetti dei nostri desideri, i custodi dei nostri progetti, i difensori delle nostre città, i primi a rispondere delle nostre strade, delle nostre luci, delle nostre piazze, fontane, campanili, pievi, castelli. Sono quelli a cui chiedi la storia. E devono dartela, la storia. Devono renderla, l’appartenenza. Devono esercitarla, la cittadinanza attiva. Sanno di essere amati, odiati, bestemmiati, insultati, dileggiati , oltraggiati e poi di nuovo amati, applauditi, condivisi, acclamati. E votati. Possono piacere o no. Ma un fatto è certo: ci mettono la faccia. In tutto ciò che fanno. E non mi sembra un dettaglio. Ma principalmente mi emoziona il fatto che siedono in una stanza di una grande casa, che è la casa di tutti. La casa comunale. Il Palazzo di Città. La casa del popolo. Che bella questa parola! Popolo. E’ una parola abusata, talvolta stuprata. Ma ho l’abitudine di amarla ancora. Perché sono un figlio di questa parola. E mi rivolgo quindi a tutti voi. Indistintamente. E parlo a ciascuno. Distintamente. Un ringraziamento particolare va ai giornalisti della stampa, perché registrano, raccontano, divulgano, informano, producono cultura. Anche a costo di essere imbavagliati, minacciati, intruppati. Ma non si piegano. E nei piccoli centri, dove ci si conosce un po’ tutti, non è facile registrare, raccontare, divulgare, informare, produrre cultura. Talvolta per pochi soldi. Talvolta per niente. Sono lì, in prima linea. E ci mettono il nome, la firma, la paternità, in quegli articoli. Che parlano di voi, che raccontano di voi, che fotografano il vostro mondo e lo restituiscono sotto forma di idee. In sintesi, anche loro ci mettono la faccia. Un ringraziamento va anche al Codacons e al Comitato che si batte da anni per la riattivazione della linea ferroviaria Sicignano-Lagonegro, in quanto si sono pubblicamente espressi a favore dell’iniziativa. Ed ancora un vivo ringraziamento a Michele Di Candia, mio amico, che mi ha supportato presso l’intero Vallo Di Diano. Ed un sincero saluto all’ex Sindaco di Teggiano, dott. Rocco Cimino, che ha sostenuto il progetto fino a quando ha potuto. Roma, interno, notte La scelta di creare nel Vallo di Diano e Tanagro, primi in Europa, un ospedale diffuso lungo una linea ferroviaria in disuso, è esplosa nella mia mente intorno alle tre di un mattino di Novembre. Evidentemente il sonno era agitato, quella notte. E l’idea venne dal pozzo dei miei sentimenti. Come da un caleidoscopio le immagini salivano vivide e si posizionavano lucide e chiare al proprio posto. Come danzatrici di Degas, prendevano posizione e se ne stavano lì. Come note nell’attesa della musica mi chiedevano il pentagramma, quelle immagini partorite da un’idea all’improvviso. Come sempre faccio, mi misi a scrivere di getto un progetto che avesse un’anima. Di più. Che avesse un significato di scopo. Ma non bastava ancora, perché mancava qualcosa. Che avesse un cuore. Di più, di più. Mancava sempre qualcosa. Che avesse i colori della stanzialità. Che abbandonasse le malinconie della transitorietà. Non c’ero ancora. Il perché mi esplose negli occhi ancora stropicciati dal sonno interrotto. Poi compresi: mancava il destinatario, l’utente finale, il David di Michelangelo, il Gattamelata di Donatello, l’Amleto di Shakespeare. Mancava, in sintesi, l’eroe di una fiaba, di un romanzo, il protagonista di un’ode, di una lirica, di una scultura che si anima da una materia informe che si forma dalla mente di Dio per le mani di un artista, mancava l’uomo. Il mio “Ecce Homo”. Il Cristo di Mantegna. Mancavi tu che leggi. Ma poi ti ho trovato. Vi ho trovato. Un piccolo Ospedale che ponesse l’uomo, il paziente, il singolo al centro della sua attività completò l’idea che mi aveva tormentato e che adesso riposava sul desktop di un pc. Da quella notte tante cose sono state fatte. E moltissime ne restano ancora da fare. Perché credo che la vita vada vissuta come testimonianza. Credo sia testimonianza. E testimoniare comporta lavoro, sacrificio, dedizione. Costa testimoniare. L’ospedale diffuso è un progetto ambizioso ed articolato, che mi riservo esplicitare in un primo incontro fra noi, che auspico avvenga a Sala Consilina quanto prima. Vorrei che partecipaste tutti: cittadini, Istituzioni, amici della stampa. Vorrei ascoltarle, le vostre testimonianze. Che sono la vita. Tutte le volte che mi reco nei vostri paesi, a sera sollevo lo sguardo sulle case. E mi chiedo chi abiti dietro quelle luci accese, quelle tende, quei portoni. E come sarà la vita lì dentro. Vorrei avere grandi, enormi braccia per abbracciarvi tutti. L’ospedale diffuso è dedicato a voi: alle madri che trepidano per il futuro dei figli, ai padri che non hanno mai perduto il vezzo e il vizio di sognare e progettare per i figli; è dedicato ai giovani, che hanno il fulgore di Dio addosso e l’alito del divino sulla fronte; ai giovani che hanno ancora il tempo di sbagliare perché hanno in tasca gli anni più belli, quelli veri, quelli verdi, perché batte nel petto di ciascuno il cuore di Gesù; è dedicato a chi è o si sente solo, perché conosca ancora il calore di un camino acceso e possa sentire il profumo degli aghi di pino la sera di Natale e non sia costretto a contare le briciole sulla tavola in disordine; è dedicato a chi sogna di andare via, perché non ce la fa più; a chi resta ed è incazzato con se stesso per non aver trovato la forza, il coraggio di partire, e non sa che ha invece trovato il coraggio di rimanere. Per tutti è possibile la felicità. Non c’è mai un tempo per smettere di crederlo. E’ sempre possibile esserlo o tornare ad esserlo, felici. La città del sole è questo: un luogo in cui provare ad essere felici; un luogo da cui ricominciare; è la tensione di un discorso poetico che non trovi il coraggio di fare, l’effusione lirica di una carezza che finalmente ti esce dai pugni chiusi in tasca, di un abbraccio mai spezzato che trovi la forza e la dignità di non interrompere; è la temperie di un soliloquio teso, una lucida angoscia che sai superare, uno slancio di fede, un orgoglio invitto, una prodigiosa energia ritrovata e impegnata in una sopravvivenza sospesa a metà, fra l’umano e il simbolico. E’ questa la città che voglio. E che voglio costruire insieme a voi. E per voi. Grazie